CAPITOLO 28: Un Globo di Luce

Il vento sferzava sulla roccia portando con sé goccioline di pioggia che rendevano la scalata molto più insidiosa. Druge guardò in basso ma non riuscì a vedere nulla; gli anomali banchi di nebbia che erano apparsi quella mattina, si erano fusi insieme creando una specie di coltre violacea che ricopriva l’intera pianura attorno alla montagna. L’Arcon avvertì la spada pulsare nel fodero, una sensazione non spiacevole ma che lo metteva a disagio. Era lui il campione destinato a sconfiggere il Guardiano del portale? Che senso aveva tutto ciò, si chiese, ma le domande avevano ormai poca importanza. Esistevano certezze, come l’amore che provava per Mila, e il pensiero di perderla lo fece esitare. Vi era la certezza di quel mondo che stava per finire, ribadita dai lampi e dai tuoni che esplodevano sopra di lui, e poi vi era la certezza più grande, quella che gli dette nuovamente forza e lo fece avanzare senza più esitazioni; la certezza dell’amore per la vita.
Si era creduto un Elenty per un tempo innaturalmente lungo, credendo di comprendere i segreti dei primigeni, anche se non li aveva mai davvero afferrati. Era solo una copia distorta di un’entità vissuta molti cicli prima in un altro mondo, una costola di un’esistenza reale ricostruita all’interno di un mondo fatto di codici. Poteva bastare come ragione per sentirsi meno vivo? No, non credeva di sentirsi meno vivo degli Elenty, non più. Contrasse ogni muscolo del suo corpo e continuò a salire. Ormai mancavano pochi passi all’entrata della caverna. Un tuono squassò l’aria, seguito da uno stridore innaturale che lo assordì parzialmente. Ignorò il dolore all’orecchio e si issò sopra il parapetto di roccia, davanti alla bocca della caverna. «Ci siamo», sussurrò, poi estrasse la spada e con passo sicuro entrò dentro Mountoor.

Mylo aiutò Misar a trasportare il corpo senza vita di Tzadik dentro la tenda, con Jade che li seguiva da vicino. La ragazza aveva gli occhi arrossati per il pianto ma aveva smesso di singhiozzare. La nebbia limitava la visuale ad un paio di passi e penetrava dentro i vestiti depositando una patina di gelo sulla pelle. La ragazza si sentì sollevata una volta dentro la tenda.
«Che cosa succederà adesso?» chiese al vecchio Arcon, che assorto contemplava la densa bruma che nel frattempo aveva nascosto l’intero paesaggio ed era capace di attutire anche i suoni.
«Non lo so, Jade» rispose il vecchio, scuotendo la testa. «Gli eventi non sono più nelle nostre mani, e forse non lo sono mai stati…»
«Ho fatto male a consegnare a quell’uomo il medaglione?» chiese la Keeper, ma non si sentiva in colpa.
«Non credo. Le cose sono cambiate quando il mago mi ha chiesto di toglierti l’oggetto mentre cercava di risvegliarti. Da allora ho incominciato a dubitare di tutto ciò che sapevo. Quando non hai più convinzioni a cui aggrapparti, ti rimane solo due cose da fare; o lasciarti cadere, o provare a volare…»
Mylo era ancora al fianco del corpo inerte dell’amico. Osservava i colori sgargianti del pojo che Nicon aveva messo addosso al suo allievo, chiedendosi dove fosse adesso il giovane Tzadik. Secondo la mitologia Arcon le anime dei morti raggiungevano la magione di re Hope, per vivere in eterno nei giulivi lidi del padre di Seidon, ma quella, come tutto il resto, era solo un’invenzione degli uomini. Tzadik aveva semplicemente cessato di esistere? Come si poteva accettare tutto ciò?
«Io vado a vedere cosa succede!» dichiarò l’apprendista mago.
«Vengo con te» aggiunse prontamente Jade.
«Non fate gli sciocchi» li ammonì Misar. «Non c’è niente che possiate fare, e poi Limbo è troppo instabile.»
«Ma non ci riesco a stare qui» spiegò Mylo. «E poi che importanza ha ormai? Quanto credi che ci rimanga da vivere?»
Il vecchio Arcon non riuscì a rispondere a quella domanda. Abbassò la testa e non disse nient’altro. Nel silenzio innaturale di quell’ultimo margine del giorno, i due ragazzi fuoriuscirono dalla tenda, perdendosi dopo pochi passi nella nebbia violacea che annunciava la fine di Limbo.

Un canto la stava chiamando, questo era tutto ciò che riusciva a percepire. Ricordava di essere caduta insieme ad altri, ricordava i lampi e i tuoni nel cielo indaco e l’odore della folgore, ma la semplice ragione della sua esistenza le sfuggiva. Qual’era il suo nome? Chi erano le persone con cui era caduta? Dove si trovava? Le domande si accavallarono senza sosta, nel buio opprimente di quella prigione della mente. A parte le tenebre, vi era il canto, un lamentevole ripetersi di parole inafferrabili proferite da una voce antica. Di chi era quella voce? L’aveva già sentita da qualche parte…
La maga seguì la canzone, non con il corpo, non con la mente, ma con l’unico mezzo in grado di comprendere davvero il mistero della musica; il cuore. “Aveva ancora un cuore?”, si chiese. Allora ricordò chi era, improvvisamente, e tutto ciò che era successo, ma ugualmente non riuscì a rispondersi. Ce l’aveva un cuore oppure no? Forse un tempo lo aveva avuto, in un mondo diverso, ma adesso non sapeva…
«Mila…» nella canzone apparve il suo nome.
«Mila, ecco la strada…» erano parole appartenenti ad una lingua sconosciuta, ma era capace di comprenderle.
«Mila, torna indietro…» la voce del vecchio, il vecchio Arcon, era lui…
«Vecchio, sei tu? Ho tante domande…»
«Non ci pensare cara, segui la strada, la mia voce, la canzone…»
Mila spalancò gli occhi ma la situazione non cambiò di molto. Al posto dell’oscurità vi era una nebbia opprimente che sembrava volerle entrare sotto pelle. Le urla dei combattimenti erano cessate e il silenzio che l’attorniava la preoccupava. Dove erano andati tutti gli Arcon? Si mosse con accortezza per il campo di battaglia ed inciampò su un corpo; era quello di Rivier. Aveva gli occhi chiusi e la sua mente era lontana, probabilmente dentro la stessa oscurità dalla quale era appena riemersa. Si inginocchiò vicino al mago e cominciò a chiamarlo, intonando le parole della canzone che l’aveva guidata fuori da quella prigione: le aveva imparate a memoria oppure erano cresciute dentro di lei? Continuò così, passando di corpo in corpo, ed uno ad uno riuscì a risvegliare tutti i caduti.

Sawar rise, come era solito fare all’alto della sua torre galleggiante mentre si adoperava a distruggere gli scenari di quel mondo insipido. Rise aggrappato alla roccia, sanguinante e dolorante, mentre la nebbia lo divorava. Rise pensando al suo strano destino, e al concetto stesso di destino dentro a una realtà fatta di impulsi elettrici. Rise e il suono della sua risata si perse nella nebbia. Per un po’ giocherellò con l’idea di lasciare quella presa; un salto nel vuoto, per chiudere una volta per tutte la scatola di quell’assurdo gioco. Probabilmente lo avrebbe fatto, se non fosse stato per Davinia. I cristalli avevano ricostruito la sua vita, mettendo ogni pezzo del puzzle al suo posto, e adesso finalmente molte cose gli erano chiare. Una di queste era il suo amore per la quella donna.
«Davinia!» urlò, ma la nebbia gli rapì la voce. Continuò a gridare quel nome, e a quel nome si aggrappò come alla roccia che lo sorreggeva. Si sorprese ad esaudire un desiderio; poterla riabbracciare ancora una volta.

Druge avanzò attraverso il cunicolo di roccia con il cuore che gli batteva all’impazzata. Vide una minuscola fonte di luce nella distanza, mentre la temperatura nel corridoio incominciava ad alzarsi. Estrasse la spada nera e continuò in direzione di quel puntino luminoso, che era come una stella solitaria dentro le tenebre della montagna. La spada era leggerissima, leggermente tiepida al contatto. Riuscì a distinguere l’apertura nella roccia, ancora molti passi davanti a lui, e la luce calda e pulsante che la illuminava. Alcune gocce di sudore gli imperlarono la fronte…
Varcò la soglia della grotta di fuoco e ciò che vide lo fece perdere d’animo; su un trono di roccia sedeva il Guardiano di Mountoor, un gigante dalla pelle bronzea il cui volto era nascosto da un possente elmo d’acciaio. Druge rimase come pietrificato davanti a quella visione. Il fuoco lambiva fino al soffitto le pareti di quell’immensa caverna, una visione accecante, insopportabile. “Dov’era il portale?”, si chiese l’Arcon, non riuscendo a vedere oltre il trono del Gigante.
«Chi sei tu?» la domanda gli arrivò dentro il suo essere. Chi era lui, si chiese, ignorando la risposta. Offeso da quell’affronto, reagì d’impulso facendo una paio di passi in avanti. Il Gigante aprì gli occhi, due fiamme azzurre dietro il metallo dell’elmo.
«Come osi avvicinarti!» la voce, come il boato del fuoco, non era più dentro di lui. Le fiamme sulle pareti tremolarono, frustate dalle onde sonore emesse da quella voce titanica. Druge si arrestò coprendosi gli occhi con il braccio con cui teneva la spada. Il calore stava diventano insopportabile. “Quanto tempo gli restava”, si chiese “prima che la sua pelle incominciasse ad ustionarsi?” Mosse ancora un passo in direzione del trono, e quel gesto servì a svegliare completamente il Guardiano, che lentamente incominciò ad alzarsi. Il colosso raggiungeva quasi il soffitto della caverna, che era alta almeno dieci passi. Gli sarebbe bastato un semplice gesto per schiacciare quell’intruso, invece sollevò l’enorme ascia che teneva in mano, la cui lama era grande quanto un cavallo. Portò il colpo con una rapidità impressionante, nonostante la sua mole. Druge sentì la fine cadergli addosso, ma evitò di pensare. Pensare, in quelle circostante, era la cosa peggiore che si potesse fare. Invece chiuse gli occhi e si fece guidare dall’istinto, o da qualcosa che gli uomini chiamavano istinto e che forse apparteneva a quei codici di cui gli Elenty usavano parlare. Druge non sapeva da dove venisse quel suo intuito, ma di una cosa era certo; lo aveva salvato più di una volta.
Il guerriero Arcon saltò in direzione della gamba sinistra del Guardiano, evitando di un soffio il colpo che si abbatté sulla roccia in un’esplosione di schegge di pietra, scintille e polvere. Un solo colpo era tutto ciò che si poteva auspicare; pregò che la spada facesse il suo lavoro e affondò la lama nel piede del Gigante. La punta della spada penetrò la dura corazza di quell’essere come uno spiedo rovente nella cera. Nessun grido fuoriuscì dalla bocca del Guardiano, che era già pronto a portare un secondo terribile colpo. Druge continuava a spingere la spada dentro l’enorme piede della creatura, ignorando l’ascia che stava calando nuovamente su di lui. Chiuse gli occhi e si arrese al colpo; non c’era nient’altro da fare, pensò. Sentì il fuoco sulla pelle, un’ultima micidiale vampata di calore che gli tolse il respiro, poi più nulla. Era finita?
Druge aprì gli occhi. Le fiamme che lambivano le pareti della caverna si erano improvvisamente estinte e del Gigante non vi era più traccia, come se non fosse mai esistito. La grotta era piombata in una semioscurità rischiarata soltanto da una tenue fonte di luce che proveniva dalle profondità oltre il trono di pietra. L’Arcon cercò la spada con cui aveva portato il colpo mortale ma non la trovò. Probabilmente era scomparsa insieme al Guardiano e alle fiamme. Mosse poi alcuni passi in direzione di quella luminescenza, e più vi si avvicinava più la caverna si ristringeva, fino a diventare un budello scavato nella roccia. Nel frattempo percepì un rumore sordo in avvicinamento, come se provenisse dalle viscere della terra. Affrettò il passo fino a raggiungere la parte più stretta di quel budello, oltre la quale si apriva un’altra caverna, molto più ampia della precedente. Druge riuscì a scorgere meglio ciò che aveva dinnanzi; la luce proveniva da un globo azzurro galleggiante, posto al centro della grotta che era invasa quasi completamente dall’acqua, o da un liquido scuro incapace di riflettere la luce. Il rombo divenne più forte, la roccia della montagna vibrò. Alcune crepe si formarono sulle pareti e improvvisamente sulla superficie dell’acqua, immobile fino a quell’istante, si crearono dei gorghi. Il liquido rifluì presumibilmente dentro le crepe che andavano formandosi sul fondo del lago, mentre il globo di luce azzurra incominciò a pulsare e ad estendersi. Druge guardò indietro e capì che non sarebbe mai riuscito ad uscire dalla montagna da dove era entrato. Quella luce era il portale, l’unica possibile via di salvezza. Pensò a Mila e si chiese se l’avrebbe mai rivista. Qualcosa dentro di lui lo rassicurò; si, Mila e Druge si sarebbero rincontrati, da qualche parte, in un tempo diverso, sotto forme nuove.
Il lago era scomparso e la luce aveva nel frattempo raddoppiato le sue dimensioni. L’Arcon corse in direzione del globo, mentre parti della montagna gli crollavano attorno. Per poco non fu trascinato via da una roccia grande il doppio di lui, poi raggiunse la superficie azzurrina del portale. Quella era la fine. Quello era l’inizio.
Chiuse gli occhi ed entrò.

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Published in: on luglio 22, 2011 at 9:15 am  Comments (2)  
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  1. […] Il vento sferzava sulla roccia portando con sé goccioline di pioggia che rendevano la scalata molto più insidiosa. Druge guardò in basso ma non riuscì a vedere nulla; gli anomali banchi di nebbia che erano apparsi quella mattina, si erano fusi insieme creando una specie di coltre violacea che ricopriva l’intera pianura attorno alla montagna. L’Arcon avvertì la spada pulsare nel fodero, una sensazione non spiacevole ma che lo metteva a disagio. Era lui il campione destinato a sconfiggere il Guardiano del portale? Che senso aveva tutto ciò, si chiese, ma le domande avevano ormai poca importanza. Esistevano certezze, come l’amore che provava per Mila, e il pensiero di perderla lo fece esitare. Vi era la certezza di quel mondo che stava per finire, ribadita dai lampi e dai tuoni che esplodevano sopra di lui, e poi vi era la certezza più grande, quella che gli dette nuovamente forza e lo fece avanzare senza più esitazioni; la certezza dell’amore per la vita… continua a leggere…  […]

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